Il “CARRADORE” (Breve cenni di
storia della famiglia di Pompilio Crocetti e figli)
Colli del Tronto, patria dei “carradori”. Proprio nella
frazione oggi denominata “Villa San Giuseppe” è nata l’arte di
costruire i carri agricoli. Cento anni fa e fino agli anni 1950
questa frazione di Colli del Tronto si chiamava “LI CARRAR” in
virtù delle botteghe presenti che costruivano questa
attrezzatura accessoria indispensabile per l’agricoltura di quel
tempo. Si potrebbero raccontare tante storie nate da
questa professione. Molti anziani ricordano benissimo tutte le
fasi della costruzione di un carro che richiedevano alta
specializzazione in specifici settori artigianali come il
falegname, il fabbro e il pittore ecc. Alla fine della
costruzione, il carro rappresentava una vera e propria opera
d’arte che si distingueva da altri in base al tema e ai colori
dei disegni oltre che agli elementi costruttivi veri e propri.
In pratica nessun carro era identico all’altro. Ognuno
rappresentava un’opera UNICA un prodotto artigianale con tanto
di firma dell’autore! Ogni famiglia costruttrice di
carri aveva quindi un “marchio” ben definito che lo distingueva
da altri carri soprattutto per la qualità della costruzione e
per i materiali utilizzati e per i decori.
(un esemplare di carro agricolo
della famiglia Pompilio Crocetti &figli )
Se ci si sofferma un
attimo e si pensa che ogni parte del carro era costruita
esclusivamente a mano; se si considera che tutti i pezzi creati
dal legno con il solo l’aiuto di seghe, pialle, torni, raspe
levigatrici, ecc. per quanto concerne le parti in legno e che le
parti in ferro venivano forgiate a mano da abili fabbri che
riuscivano ad ottenere dei cerchi perfetti con diametri di circa
mt. 1,50…., allora forse apprezzeremo veramente questo lavoro e
daremo il giusto merito a queste opere e agli “artisti” che sono
stati dimenticati forse troppo in fretta. E’ lungo
descrivere e relazionare su questo importante mestiere ormai
perduto di “carradore” e tutti i vari passaggi nella costruzione
di un carro, quindi ci limiteremo ad una descrizione sommaria.
Il carro agricolo, fino agli anni cinquanta,
rappresentava una risorsa fondamentale ed insostituibile per la
vita dei campi; esso riusciva a semplificare notevolmente lavori
altrimenti impossibili da svolgere. Il carro trainato
dai buoi era necessario per il trasporto dei prodotti della
terra: per i covoni di grano dalla campagna all'aia, per il
grano trebbiato al mulino e la farina al forno. Era usato per il
trasporto del mais, del fieno, della legna e di tutte quelle
materie prime prodotte dai campi. Non ultimo, nelle case ubicate
in periferia veniva utilizzato anche per il trasporto di persone
anziane o ammalati ecc. Insomma per tante famiglie dedite alla
coltivazione della terra, era l’unico e vero strumento di
spostamento. Pompilio Crocetti nato a Colli del Tronto
nel 1880, aveva una grande passione per il legno, elemento a cui
si era abituato fin dalla tenera età poiché il padre Gioacchino
e il nonno, già nei primi anni dell’800, costruivano
magistralmente carri, calessi, botti, tini, e barili per l'olio. Apprendere questa arte dal proprio genitore è stata
molto dura perché era un mestiere particolarmente difficile.
Pompilio Crocetti ebbe però una famiglia numerosa alla quale
trasmise quest’arte: infatti da tre distinti matrimoni nacquero
ben 9 figli di cui sette maschi e due femmine. Sette
figli con la prima moglie Giulia morta in giovane età per una
polmonite, nessun figlio con la seconda purtroppo deceduta al
momento del parto del proprio figlio e gli ultimi due con
Clorinda. La "bottega de Pempì" (nome della casata
Crocetti proprio per il nome del suo capostipite Pompilio)
sorgeva proprio adiacente alla Via Salaria (ex S.S. n. 4) ed era
costituita da tutto il piano terra di un ampio casolare dove
abitava tutta la numerosa famiglia. Il piano terra era di
circa 200 mq. oltre al locale verniciatura di circa 100 mq.
situato nelle immediate adiacenze del laboratorio; tutto era
destinato alla costruzione del carro. Nel piazzale antistante
il laboratorio, si effettuavano invece i lavori per la posa del
cerchio in ferro sulle ruote. Esisteva naturalmente
anche un rilevante deposito di legname di vario tipo che veniva
utilizzato per la costruzione del carro. Particolarità
essenziale era che il legname doveva essere ben stagionato per
non produrre defezioni dopo la costruzione del carro. La
famiglia di Pompilio Crocetti era quindi la classica famiglia
patriarcale. E’ importante rilevare questa particolarità, perché
in quel tempo la mano d’opera specializzata era molto preziosa.
Infatti tutti i figli maschi appena finiti gli studi
obbligatori, (i cinque figli avuti dalla prima moglie) entrarono
di fatto nel ciclo produttivo nella costruzione dei carri tutti
agli ordini del padre Pompilio che aveva assegnato ad ognuno una
specializzazione specifica. Ciascun figlio quindi aveva
un compito ben preciso: Gioacchino era addetto al taglio e alla
sagomatura dei pezzi; Giuseppe era l’esperto di tutte le
lavorazioni in ferro, cerchi compresi; Vittorio era molto abile
nella costruzione delle sponde e del pianale; Guido era
specializzato nella rifinitura dei raggi e tamburi e nella
verniciatura dei vasi sulle sponde; ed infine ad Emidio, essendo
il più giovane, era stato assegnato il compito dell’assemblaggio
e della rifinitura finale. Naturalmente su tutta la lavorazione
sovrintendeva il padre Pompilio che provvedeva all’acquisto di
tutti i materiali e alla stagionatura del legname.
Oltre ai figli di Pompilio, nella bottega, lavoravano in media
altri tre o quattro “aiutanti” che erano in prevalenza o
contadini del luogo che venivano a lavorare nei tempi morti
della campagna o giovani apprendisti per imparare un mestiere.
Naturalmente oltre alla costruzione di nuovi carri, si
effettuavano anche tutte le riparazioni necessarie per altri
carri e calessi (berriccì)vetusti. Insomma la
"bottega de Pempì"
era una vera e propria concessionaria ed officina di mezzi
agricoli. I carri si differenziano in due tipi, per
dimensioni e per portata. Il carro "da misura", il più grande,
aveva le ruote del diametro di circa 1,40-1,50 mt e doveva
essere abbastanza consistente perché doveva sostenere un carico
di circa 40-50 q.li. Il "mezzo carro" invece aveva le ruote da
1,00-1.20 mt. di diametro ed era utilizzato per i trasporti
molto più leggeri. Tutto il lavoro essendo fatto a mano,
era artigianale, gli strumenti erano: pialla a mano, sega a
nastro e a telaio, accetta ed il tornio a pedale. Una manualità
straordinaria unita ad una gran esperienza e pazienza,
consentiva di raggiungere risultati perfetti che oggi vengono
prodotti solo con macchine elettroniche. Ad esempio, per le
ruote, bisognava costruire 14 raggi di legno, assolutamente
identici, e incastrarli sul tamburo, anch’esso perfettamente in
asse con una ripartizione perfetta. Oltre alla difficoltà di
costruire le ruote, c'era un particolare accorgimento per
metterle in asse perché il carro doveva appunto "cantare" vale a
dire produrre il caratteristico rumore sulla carreggiata
stradale.
(Due tipi di tamburo in base alla grandezza delle ruote)
Tenete presente che le strade di quel tempo erano tutte
imbrecciate (compresa l’attuale Salaria) e il transito di questi
veicoli, più che un rumore era un vero e proprio fracasso, che
però per l’orecchio di un intenditore era sinonimo di qualità.
Se un carro non "cantava" non era ben fatto e non tirava bene
con conseguenze anche per i poveri buoi che non lavorando
simmetricamente facevano sforzi notevoli. Un anziano
del paese mi raccontava che il carro della "bottega de Pempì" si
riconosceva da centinaia di metri di distanza per il rumore
delle ruote facevano sulla strada stridendo con la ghiaia.
Praticamente il cerchio in ferro delle ruote del carro produceva
un rumore ritmico e costante che stava a significare l’ottima
equilibratura dello stesso. Numerosi erano i tipi di
legno utilizzati nella costruzione di un carro agricolo:
-
la stanga, il telaio ed il mozzo delle ruote erano in legno di
olmo, perché particolarmente elastico e robusto;
-
i raggi
delle ruote di legno di quercia o di acacia per la robustezza;
-
il cerchio esterno in noce nazionale;
-
il piano del carro in
legno di abete perché poteva anche essere sostituito con costi
relativamente bassi;
-
i freni in legno di fico, perché questo
legno particolarmente morbido, riusciva a fare più attrito sul
cerchio in ferro e rallentare meglio la corsa.
L'acquisto dei legnami necessari veniva fatto nei paesi della
vicina montagna; la maggior parte era acquistato ad Accumuli,
Arquata ecc. in provincia di Ascoli Piceno. L’unico elemento non
costruito all'interno della bottega di carradore era il ferro
del cerchio, che veniva acquistato da rivenditori delle regioni
del nord. Il cerchio veniva costruito da una barra di ferro di
vario spessore a seconda della grandezza della ruota del carro
che veniva scaldata, battuta, piegata e calandrata, fino a
raggiungere un cerchio perfettamente regolare.
Mediamente per la costruzione completa di un carro, due persone
impiegavano un mese di lavoro fatto di 25-26 giornate e con un
orario medio giornaliero di circa dodici ore; quindi nella
bottega Crocetti in un mese si potevano costruire due carri
oltre ad eseguire le normali riparazioni di quelli vetusti.
Alcune fasi della lavorazione, ad esempio il montaggio dei
cerchi di ferro delle ruote, richiedevano più manodopera; in
questo caso si ricorreva all’aiuto dei contadini della zona che
venivano di gran voglia perché alla fine della lavorazione era
usuale fare un buon pranzo innaffiato con bicchieri di ottimo
vino. Praticamente ogni volta che si effettuava "la
ferratura" si metteva in moto tutta una organizzazione di lavoro
sia nel piazzale antistante il laboratorio artigianle, sia nella
ampia cucina dove c’era un tavolo che poteva ospitare 18-20
persone a sedere. Quindi quando c’era la “ferratura” nel
casolare Crocetti, era festa grande. E’ difficile per
noi immaginare certe situazioni di vita, ma in momenti
sicuramente non di agiatezza economica, ma caratterizzata da
notevoli sacrifici e stenti, avere la possibilità di mangiare
qualcosa di prelibato (un bel piatto di pasta fatta in casa)
rappresentava comunque una buona scelta. Comunque
"la
ferratura" era una fase lavorativa delicatissima e se non
eseguita bene poteva compromettere quasi tutto il lavoro
precedente. I cerchi accatastati l'uno sull'altro venivano
arroventati con dei grandi fuochi all'interno degli stessi ed
una volta che erano diventati incandescenti quindi ben dilatati,
venivano presi da 5-6 addetti con delle tenaglie particolari ed
incastrati simultaneamente nella ruota di legno; bisognava
prestare la massima attenzione affinché la ruota in legno non
prendesse fuoco e che il cerchio fosse in posizione precisa
prima del raffreddamento. Questa opera di raffreddamento
precoce, veniva svolta dai ragazzini del paese che facevano la
spola nel vicino fosso Vargo o nell’adiacente pozzo, portando
recipienti di acqua che servivano per raffreddare il cerchio in
ferro subito dopo il posizionamento sulla ruota. Questo
ritirandosi si serrava alla ruota in ferro e non usciva più. Parte importante del carro era la stanga che era fatto da
un unico tronco di olmo. Nella parte terminale della stanga,
vicino al pianale, veniva incastonato una specie di vano
porta-attrezzi con tanto di sportello con occhielli per la
chiusura con lucchetto, che serviva a contenere alcuni utensili
e l'immancabile colazione con una bottiglia di vino che
rappresentava la compagna ideale delle fatiche quotidiane dei
contadini nella coltivazione del terreno. Dopo
l’assemblaggio di tutte le parti si montavano le sponde ma prima
queste dovevano essere verniciate e quindi protette dalla
vernice di minio e opportunamente disegnate nella parte esterna.
La fase finale della realizzazione di un carro quindi era
rappresentata dalle decorazioni, sempre ricche di colore e
fantasia. Come dicevamo prima era questa la vera firma
del costruttore. I decori erano realizzati con la tecnica del
disegno speculare; se ne disegnava una metà su un foglio di
carta oleata piegato per avere poi, una perfetta simmetria della
composizione floreale. Questi fogli venivano poi forati con
degli aghi in modo che passando una mano di vernice su di esso,
sulla parete in legno rimaneva un tratto preciso del disegno che
poi veniva ripassato con i pennelli di diversa grandezza a
seconda del tratto e completato con tutti gli colori e
decorazioni floreali. Guido Crocetti era l’addetto a
questa operazione. Essendo mio padre ho potuto personalmente
negli anni verificare come egli eseguiva questa operazione su
carri che lui ha ristrutturato e ridisegnato interamente negli
ultimi anni della sua vita. Oggi questi carri (circa una decina)
fanno bella mostra nei giardini di alcune ville private di
campagna della provincia di Ascoli Piceno. Questa fase
rappresentava un lavoro certosino con l’impiego di tanti colori
che venivano costruiti mischiando all’olio di lino, tante
polveri di vario colore fino ad ottenere la sfumatura voluta. Il
tutto veniva miscelato da una macchinetta, anch’essa
rigorosamente costruita a mano, che era la compagna sempre
presente del disegnatore e pittore di carri.
(Macchinetta per fabbricare e miscelare i vari tipi di
vernice)
Una volta terminata la costruzione si passava
alla vendita del carro che comunque era sempre stato ordinato da
qualcuno. In pratica, non si costruiva il carro in serie e poi
si vendeva. Non era possibile in quel periodo per i notevoli
costi e per la scarsità di denaro che circolava. Il carro veniva
acquistato, previa ordinazione, quasi sempre dai contadini, ma
quasi mai dai padroni della terra; in fondo ai padroni della
terra non importava un granché su come veniva svolto il lavoro
nei campi…! A loro interessava prendere la propria parte e
basta. Nessun interesse avevano questi agli strumenti che
potevano alleviare la fatica degli uomini da chi fatica non ne
pativa!!! Ad esempio, nel 1949 per un carro da misura si
poteva spendere 70.000 lire pari a 36,15 euro, mentre nel 1950
per un mezzo carro 40.000 lire pari a 21.28 euro. L'acquisto di
un carro rappresentava allora quello che oggi può essere
assimilato all'acquisto di una e propria fuoriserie. Il
pagamento del carro quasi sempre avveniva in modo promiscuo;
cioè si pagava una parte in danaro e la rimanenza con sacchi di
grano e granoturco o farina. Insomma esisteva un naturale
interscambio tra costruttore di carri e cliente. Quest’ultimo
essendo quasi sempre un contadino che sfacchinava dalla mattina
alla sera in campagna, riusciva a pagare con i prodotti della
terra che rimanevano a lui dopo la divisione con il padrone. Sinceramente credo che quel periodo, anche se molto
sofferto per la povertà e per i sacrifici, rappresentasse un bel
periodo sotto l’aspetto umano e la cordialità che esisteva tra
la gente del paese. Praticamente tutti si conoscevano e si
aiutavano come se fosse una vera e propria cooperativa.
Il carradore Pompilio Crocetti possedeva un prototipo di carro
che esponeva nelle numerose fiere agricole che si svolgevano
nella provincia di Ascoli e Teramo e da queste esposizioni
agricole, successivamente arrivavano gli ordini di acquisto. L’acquirente, nel corso della fiera, poteva verificare la
qualità del prodotto e i materiali utilizzati, poteva avere il
carro in prova per qualche giorno e solo dopo un ampia e
meticolosa discussione nella propria famiglia decideva se
acquistarlo o meno. Solo allora egli si recava nella "bottega di Pempì" e faceva prezzo, il metodo di pagamento e la data
della consegna. Il carro della famiglia Crocetti ha
avuto in quel periodo un ottimo mercato, oltre che nel
territorio del Piceno anche nel vicino Abruzzo (Colonnella Alba
Adriatica e Tortoreto) dove ancora oggi si possono vedere questi
carri conservati in buono stato. Per esempio un carro
ben conservato è quello trainato dai buoi e utilizzato nella
processione del patrono di Ascoli, S. Emidio. Questo carro è
infatti un ottimo esemplare uscito dal laboratorio Crocetti
Pompilio e Figli. (oggi è di proprietà della famiglia Ficcadenti
Francesco di Colli del Tronto)
(Carro della famiglia Crocetti con la statua di S. Emidio
portata in processione in Piazza Arringo)
Ce n'erano
altri di carradori a Colli del Tronto e nella vicina
Controguerra, tutti costruttori di carri, ma, almeno secondo la
testimonianza di tanti anziani del luogo, questi non avevano la
perfezione nella costruzione dei carri che aveva Pompilio
Crocetti e i suoi figli. Una semplice dimostrazione sta
anche nel fatto che l’unico vero e concreto riconoscimento a
livello nazionale di questa attività lo ha avuto Pompilio
Crocetti. Nel 1926 infatti furono premiati a Roma presso
l’allora ministero dell’Agricoltura solo tre artigiani
rappresentanti rispettivamente dell’Italia settentrionale,
centrale e meridionale. Per l’Italia centrale, Pompilio
Crocetti risultò al primo posto e ricevette la medaglia d’oro
con la seguente motivazione :
“Diploma di Gran Premio e
Medaglia d’Oro ai Sigg. Crocetti Pompilio e Figli per la
fabbrica di ottimi carri” Mio padre raccontava che in
quell’occasione, il nonno Pompilio, tornò da Roma con il pullman
e stringendo il diploma e la medaglia, al petto, pianse di
contentezza per l’intero
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(Diploma rilasciato dal Ministero) |
Dicitura del diploma |
La produzione è continuata
anche dopo la morte per malattia del capostipite avvenuta nel
1939, ma la guerra ed altre vicissitudini familiari, oltre
all’avvento del trattore meccanico, hanno fatto finire questa
produzione attorno al 1951-52. Soprattutto la ritirata
dei tedeschi fu una vera e propria tragedia economica per la
famiglia Crocetti. Ritirandosi dal vicino fronte abruzzese, i
tedeschi al passaggio sulla Salaria razziarono tutto quello che
trovarono. Fu così che nella “bottega de Pempì” furono portati
via camion stracarichi di legname pregiato già pronto per essere
utilizzato e quasi tutti i macchinari presenti nella bottega che
sarebbero stati fusi e per le fabbriche di armi in Germania. Portarono così via carri in costruzione e calessi, rubarono
il cavallo ed altre cose di valore ecc. e questa rappresentò di
fatto la fine della “bottega de Pempì” che, dopo la guerra,
avrebbe invece potuto riconvertire l’attività nella costruzione
di porte e finestre e chissà…… Mio padre e i miei zii
riuscirono a salvare soltanto una grossa pialla in quanto fecero
appena in tempo a sotterrarla in una buca di tre metri di
profondità nella baracca dove si verniciava. Tropo poco però per
cercare di continuare un’attività artigianale nonostante l’alta
professionalità dei figli di Pompilio Crocetti.
Colli del Tronto, 01.12.2008 Leo Crocetti
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